Padre Nostro
Che conforto
devono aver provato i discepoli sentendo che Gesù incominciava la
sua preghiera con “Padre Nostro” (Mt 6,9). Queste due parole
non erano mai state usate nell’Antico Testamento per rivolgersi a
Dio. Al contrario, il velo del tempio doveva simbolicamente
ricordare a ogni fedele in preghiera che il peccato aveva separato
Dio e l’umanità. Quando Gesù insegnò ai suoi discepoli a pregare,
sapeva che la sua morte avrebbe squarciato quel velo e avrebbe
portato riconciliazione. Come risultato di ciò, io non sono più
considerato un estraneo e uno straniero, ma un amico. Io non sono
uno schiavo, ma un figlio del Padre celeste (cfr. Gal 3,26;4,7).
Quando prego
“Padre Nostro”, non sto soltanto rivolgendomi a Dio nella
maniera appropriata, ma sto affermando una realtà spirituale: Dio mi
ha reso suo figlio. È un atto di grazia così sorprendente che
l’apostolo Giovanni si meraviglia: “Quale grande amore ci ha dato
il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”
(1Gv 3,1). Non dobbiamo esitare nemmeno un solo istante, siamo
immediatamente accolti alla presenza del Padre.
Venga il tuo
regno
A questo punto è
importante mettersi nei panni dei discepoli di Gesù per comprendere
l’impatto del suo modello di preghiera. Gesù infatti insegnò a
considerare due aspetti del suo regno.
Quando fu
interrogato dai farisei sui tempi del suo regno, rispose:
“Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e
nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in
mezzo a voi!” (Lc 17,21). È un regno spirituale, formato
da tutti coloro che si sottomettono alla sovranità di Dio (cfr. Gv
3,5). Il regno di Dio è una realtà presente manifestata nella vita
dei credenti. Ma il regno ha anche un aspetto visibile. In Matteo 25
Gesù spiega che Dio avrebbe presto stabilito il suo regno e che i
suoi discepoli dovevano quindi essere vigilanti. E nel libro
dell’Apocalisse leggiamo della venuta di quel regno. Ci sono dunque
due aspetti del regno: l’ora e il non ancora.
Forse Gesù li aveva in mente entrambi quando istruì i suoi
discepoli a pregare. “venga il tuo regno”. Da un lato dovrei
pregare perché Dio governi la mia vita oggi. Paolo spingeva i
Tessalonicesi a vivere “in maniera degna di quel Dio che vi
chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2,12). Come
cittadino del regno dei cieli devo rispettare l’onore del re
(adorazione), sottomettermi ai comandi del re (obbedienza),
rimanere leale agli obiettivi del re (missione), valorizzare
e condividere le risorse del re (amministrazione). “Venga il
tuo regno” è una preghiera di resa personale. Al tempo stesso è una
preghiera di speranza. |
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Che sei nei
cieli
Se ci pensiamo
bene “in cielo” è una bella affermazione. Gesù sapeva che
questo comunicava parecchie caratteristiche importanti del Padre.
Innanzi tutto, comunica l’onnipotenza di Dio. Uno scrittore disse:
“Dovunque si trovi l’uomo, c’è sempre un cielo su di lui”. Il
salmista rifletteva: “Dove andare lontano dal tuo Spirito, dove
fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo
negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’
estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la
tua destra” (Sal 139,7-10). Il sapere che Dio è nei cieli
mi rassicura della sua trascendenza. Dio disse: “Quanto il cielo
sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano i vostri pensieri”
(Is 55,9). In Atti 17, Paolo predicava che Dio non è confinato a
un tempo o ad uno spazio particolare: non ha limiti di alcun genere.
Nei cieli perché mi rassicura riguardo la provvidenza di Dio. Dio
conosce il risultato di ogni evento e governa il mondo secondo il
suo disegno di salvezza. Dal cielo Dio vede e dirige
provvidenzialmente ogni cosa, rassicurandoci che ne ha il controllo.
Sia fatta
la tua volontà
come in cielo
così in terra
Dio mi lascia una
completa libertà ma così facendo, rischia il rifiuto. In ogni
momento devo scegliere tra la volontà del Padre e la mia. È una
decisione di fronte alla quale si trovò anche Gesù. Era angosciato
nel Getsemani, eppure concluse: “Però non come voglio io,
ma come vuoi tu!” (Mt 26,39). In precedenza, durante il
suo ministero, Gesù disse che desiderava compiere soltanto la
volontà del Padre suo (cfr. Gv 4,34; 5,19) e questa decisione lo
portò alla morte (cfr. Fil 2,5-11).
Nella via delle
decisioni umane, vengo sfidato a decidere: la volontà di Dio e la
sua Parola, oppure la mia volontà e le mie ambizioni? Quando prego
“sia fatta la tua volontà”, sto confermando il diritto divino sulla
mia vita. Posso lottare, ma desidero che Dio abbia la sua via in me
e attraverso me.
La questione è:
qual è la volontà di Dio per me? A volte il problema non è la
mancanza di volontà ma l’ignoranza. Mi sottometterei alla volontà di
Dio se potessi immaginare qual è! Ma la preghiera di Gesù era più
grande. Egli pregava perché fosse fatta la volontà di Dio sulla
terra come era fatta in cielo. Non desiderava la volontà di Dio
soltanto per la sua vita, ma la volontà di Dio ovunque.
La volontà di Dio
è che gli rendiamo gloria. Ogni volta che vivo in modo tale da
glorificare Dio, sto facendo la sua volontà sulla terra come viene
fatta in cielo (cfr. 1Cor 10,31).
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Sia santificato
il tuo nome
In Esodo 3 Dio si
rivelò a Mosè come “IO-SONO”. Questo è il nome di Dio. È
un’espressione talmente sacra che gli antichi ebrei non la
pronunciavano nemmeno. Quindi non ci deve sorprendere che Gesù
insegnasse ai suoi discepoli a glorificare il nome di Dio. Eppure,
non è il nome di Dio che va santificato, quanto ciò che il suo nome
significa. Nella cultura ebraica dell’Antico Testamento, il nome di
una persona si riferiva sempre al suo carattere. Il nome rivelato di
Dio, Io-Sono, significa che lui esiste: è il Dio che è. Il suo nome
significa che Egli esiste da sé ed è indipendente. Il suo nome
significa che è immutabile. Dio dice: “Io Sono”, non “Io sarò”. Il
suo nome significa che Egli è inesauribile. Isaia si stupisce che
“Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non
si affatica né si stanca” (Is 40,28).
Allora mentre
rifletto sulle multiformi caratteristiche di Dio, il modello della
mia preghiera si trasforma. Il mio obbiettivo si focalizza su Dio.
Dacci oggi
Il nostro pane
quotidiano
Dio è un Padre
benevolo che elargisce buoni doni ai suoi figli (cfr. Mt 7,11). In
realtà la sua persona e la sua provvidenza sono inseparabili; donare
è una sua caratteristica, mentre l’essere bisognosi fa parte della
nostra natura. Pregare semplicemente “dammi il mio pane quotidiano”
significa chiedere ciò che mi è necessario per vivere e riconoscere
che, senza la continua Provvidenza di Dio, non posso sopravvivere.
Nel libro dei Proverbi 30,8-9 leggiamo una preghiera che esprime un
buon equilibrio: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi
avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti
rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza,
non rubi e profani il nome del mio Dio». Il pane
quotidiano è l’equilibrio tra la povertà e l’eccesso; è
letteralmente ciò che è sufficiente per la giornata. Se cerco
troppo, posso amare il dono più di quanto non ami il Donatore; se
ricevo troppo poco, posso affondare nel malcontento. Sappiamo però
che “l’uomo non vive soltanto di pane, ma… di quanto esce dalla
bocca del Signore” (Dt 8,3), cioè della sua Parola e del suo
Soffio. |