(Mc 9, 5).
Maestro è il titolo di Gesù
poiché egli ha raccolto intorno a se dei discepoli. Il Maestro solitamente
è una persona che insegna bene quanto è stato tramandato, Gesù
invece è stato un profeta che ha annunziato cose antiche e cose nuove
e parla con autorità. Maestro è Rabbì, che significa “mio
maestro”.
Al tempo di Gesù questo era il titolo riservato ai maestri più
rinomati e dal 70 d.C. si attribuì specialmente agli scribi. Il titolo
esprime onore e riconoscimento nei confronti di un maestro. Gesù viene
chiamato così ed è Lui stesso a raccomandare ai suoi discepoli
di non farsi chiamare Rabbì e di non chiamare nessuno Rabbì, se
non lui solo (Mt 23,8). Come è lontano e confuso il nostro tempo, dove
tanti vengono chiamati maestri, ma non sono e non possono essere tali né
per formazione umana né tanto meno spirituale. Rabbì identifica
esclusivamente Gesù come si rileva anche dal grido di gioia della Maddalena
il mattino di Pasqua. Non ebbe bisogno di dire altro e la gioia della risurrezione
esplose in lei: Rabbunì, era Gesù risorto. Il maestro che aveva
insegnato a vivere, anzi era la vita; che aveva comunicato amore, anzi era l’amore,
che aveva preso i suoi discepoli per mano per condurli passo dopo passo nel
Regno dei cieli era ed è solo Gesù, il Cristo.
In questo “bello per noi” sta tutta l’apertura del cuore e
la gioia che ne sgorga, frutto del vivere una intensa esperienza del divino.
Magari gli apostoli in quel momento non hanno la consapevolezza piena di quello
che sta succedendo e di quale realtà profonda vengono ad essere spettatori
e nello stesso tempo testimoni. Quello che riescono a capire e ad esprimere
è proprio questa immensa sensazione di bellezza e di godimento che vorrebbero
non finisse mai, di qui l’idea di mettere su le tende, in senso di permanenza,
di trattenere una esperienza che sentivano essere solo di un momento, tesa a
scivolare via, anche se già rimandava a qualcosa di duraturo, di profondamente
infinito. In realtà, fin dall’inizio dei tempi, da quando l’uomo
si è messo a pensare e riflettere sulla sua natura e sulla presenza di
un Essere che lo trascendesse e che ne orientasse la vita, il Bello, insieme
al Buono e al Vero si è da sempre identificato con l’idea del divino,
di un Dio che è totalmente altro dall’uomo, ma che in ogni caso
ne segue i passi.
Stare qui – L’idea del “stare” è proprio quella
del permanere, della volontà di restare in una condizione che dà
diletto e soddisfazione dei più intimi desideri. Si vuole stare, quando
quello che si vive comunica benessere, appunto stare bene. Gli Apostoli devono
veramente aver fatto una esperienza unica, nel godere della trasfigurazione
del Signore e della presenza di Mosè ed Elia, al punto che non sarebbero
scesi più da quel monte. Volentieri avrebbero annullato lo spazio e il
tempo per rimanere lì in perenne godimento di ciò che vedevano.
Gesù successivamente li richiama invece a scendere dal monte, ad andare
a Gerusalemme, ad attraversare il dolore, il tradimento, la passione e la morte,
senza i quali non ci può essere risurrezione, l’unica condizione
che può aprire il Regno dei cieli e far sì che l’esperienza
della gloria del Signore non finisca mai.
Se ci impegniamo a seguire in questa vita le orme del Signore Gesù dovunque
e in qualsiasi modo lui voglia, allora si che in Paradiso metteremo la nostra
tenda, stabile per sempre.
La tenda è l’abitazione dei nomadi, del popolo errante. La presenza
di Dio si rende sensibile per mezzo di una tenda, che nel tempo della peregrinazione
nel deserto è santuario del popolo di Israele, che lo accompagna nel
suo cammino. La tenda appare come luogo dove viene conservata l’Arca dell’Alleanza
con le Tavole di pietra della Legge (Es 25,16), come abitazione di Dio e come
luogo in cui Mosè riceve speciali rivelazioni. La tenda dell’incontro
conciliava le esigenze della vicinanza di Dio e della sua invisibilità
e trascendenza. Per incontrare il Signore, Mosè rizza una tenda fuori
dell’accampamento, JHWH discende in una colonna di nube e Mosè
si intrattiene con lui come ci si intrattiene con un amico (Es 33,7-11). La
tenda non è vista tanto come l’abitazione fissa di Dio quanto piuttosto
come il luogo in cui Dio e l’uomo si danno appuntamento per incontrarsi:
lo spazio sacro non delimita la presenza divina ma fissa il luogo dell’incontro.
Elia e Mosè sono entrambi annunciatori del tempo messianico e il tempo
del Messia, corrispondente nella concezione giudaica a quello di Mosè,
doveva essere preparato da Elia.
Elia significa “il mio Dio è JHWH”. Svolse l’attività
profetica rimproverando e minacciando(1Re 17,1; 18,21; 2Re 1,3), ma anche facendo
delle promesse in nome di Dio (1Re 18,1). Praticò l’intercessione
profetica e non pronunciò nessun giudizio di distruzione, ma richiamò
a un cambiamento di direzione dell’uomo, alla conversione. Elia è
un profeta ambulante, che portava il mantello di pelle tipico del costume del
deserto, ereditato dall’antichità con ai fianchi una cintura di
cuoi. Anche per questo suo abbigliamento, nonché per la sua attività
profetica, nel N. T. ad Elia viene rapportato il Giovanni Battista. Inoltre
la tradizione ha equiparato Elia a Mosè. Egli infatti, come il grande
legislatore di Israele, pose la fede in JHWH nello stato d’Israele su
nuove basi affermando l’antica tradizione e fornendo una nuova concezione
più profonda e più comprensiva della natura e della azione divina.
Elia è precursore e pioniere dei profeti dell’epoca classica.
Mosè significa “salvato dalle acque” e la sua storia è
ben nota dalla sua nascita alla sua vocazione vicino al roveto ardente, alla
sua missione per liberare il popolo d’Israele alla schiavitù degli
egiziani. Mosè rappresenta la Legge, centro dell’A. T. e punto
di partenza del Nuovo T., in cui Gesù dice di non essere venuto ad abolire
la Legge, ma a completarla, riassumendo i dieci Comandamenti, scritti dal dito
di Dio su tavole di pietra e poi consegnate a Mosè, in due soli e semplici
comandamenti, scolpiti dall’insegnamento e dall’esempio di Gesù
nel cuore di ogni uomo: l’amore verso Dio e verso il prossimo (Mc 12,
29-31). Come dice san Giovanni: “la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”
(Gv 1,17). La presenza del Cristo dimostra vere le profezie e la grazia rende
possibile osservare i comandamenti.
Interessante è il cogliere il parallelismo che intercorre tra Mosè
e Gesù. È san Giovanni Crisostomo che ci aiuta in questo: come
il primo Mosè era l’uomo più mite della terra, anche il
secondo (Gesù) aveva questa caratteristica, assistito come era dal dolcissimo
ed a lui consustanziale Spirito. Mosè levava le mani al cielo facendone
scendere la Manna, pane degli angeli. Gesù leva le mani al cielo e ci
procura un cibo eterno, il pane Eucaristico. Il primo percosse la pietra e scaturirono
torrenti d’acqua. Gesù tocca la mensa e fa sgorgare le fonti dello
Spirito.
Gesù dialoga con Mosè ed Elia, la Legge e i profeti. La Parola
di Dio si compie in lui, diventa la sua carne. Gesù parlava con Mosè
ed Elia del suo Esodo, dell’itinerario che doveva compiere in questo mondo.
Si tratta di salire a Gerusalemme, compimento della sua missione.
Quello che doveva accadere a Gerusalemme è fortemente legato a ciò
che accadde sul Tabor. Come ci suggerisce san Leone Magno Papa in un brano dei
suoi “Discorsi”, questa Trasfigurazione mirava soprattutto a rimuovere
dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione
della passione volontariamente accettata non scuotesse la loro fede, dal momento
che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta
del Cristo.
Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di testimoni e fa risplendere
quel corpo, che ha in comune con tutti gli uomini, di tanto splendore che la
sua faccia diventa simile alla luminosità del sole e le sue vesti sono
uguali al candore della neve.
A questa esperienza di cotanta luce gloriosa del Signore Gesù, si unisce
anche un altro prodigio, un ulteriore insegnamento che serve sempre per confermare
gli apostoli nella fede e condurli ad una conoscenza perfetta. Mosè ed
Elia apparvero a parlare col Signore, perché in quella presenza di cinque
persone si adempisse quanto è detto: “Ogni cosa sia risolta sulla
parola di due o tre testimoni” (Mt 18,16). Le voci dell’A. e del
N. Testamento in perfetto accordo danno stabilità e veridicità
a questa parola che esprime la gloria di Dio, alla quale tutti sono chiamati.
Ritrovi forza la fede di ciascuno e l’idea della croce di Cristo non ci
scoraggi, perché per mezzo proprio di quella croce è stato redento
il mondo. Nessuno dubiti mai della Parola del Signore e crediamo alle sue promesse
ed alla ricompensa dovuta a chi lo segue con cuore sincero e fedele.
Avendo egli preso su di se le debolezze della nostra condizione, anche noi,
se persevereremo nella sua sequela e nel suo amore, riporteremo la sua stessa
vittoria ed otterremo il premio promesso. Per questo diciamo con san Paolo:
“Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili
alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).
Il premio promesso è il partecipare alla gloria di Dio: quella stessa
gloria, che sul Tabor gli apostoli avevano visto brillare nel Capo, e anche
per le sue membra. “Allora i giusti splenderanno come il sole nel Regno
del Padre loro” (Mt 13,43). Già il Signore ha iniziato la sua opera
di “lucidatura” dei nostri volti e dei nostri cuori. Certo, nessuno
oggi è in comunità con lo stesso eidos, con lo stesso aspetto
di quando vi è entrato. I volti di oggi non sono gli stessi volti di
ieri. Il volto è lo strumento che consente il passaggio dall’interno
della persona all’esterno. È l’Epifania del cuore. La bellezza
di un volto non dipende da particolari criteri estetici, ma dall’essere
segno dell’autenticità del cuore.
Come nella Trasfigurazione sul Tabor, in volto di Gesù brillò
come il sole, anche i nostri volti sono rischiarati in preghiera dallo Spirito
di Dio che porta tutto a luce per la gloria di Dio. Quanto e come ha mirabilmente
lavorato la mano di Dio nei nostri cuori per poi far risplendere i nostri volti
della gioia della vita. Ognuno sa l’opera di Dio in se e che cosa ancora
è rimasto da fare, guardiamoci dentro come in uno specchio e guardiamoci
l’uno con l’altro manifestandoci con il sorriso le meraviglie compiute
da Dio in noi.
Come diceva madre Teresa di Calcutta, la gioia è per noi un bisogno e
una forza. Una persona colma di gioia predica senza predicare, risplende come
un raggio dell’amore di Dio, è speranza di felicità eterna,
è segno della sua gloria.
Cinzia
Alleluia!!